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La comunità: un nuovo stile educativo.
di Vincenzo Andraous  ( vincenzo.andraous@cdg.it )

25 settembre 2010

Nel quotidiano bailamme di intemperanze etiche, di utopie violente, ci sono, a fare da ponte verso una qualche salvezza, realtà serie e credibili, che si mettono a mezzo a quel disagio sociale che miete vittime innocenti, mentre in seno al consorzio civile crescono persone sempre più fragili, giovani che non ce la fanno a prendersi in braccio e stringere i denti. Da molti anni c'è la Comunità Casa del Giovane a Pavia, una comunità di servizio e terapeutica per quanti sono in ginocchio a causa dell'assunzione di sostanze stupefacenti, dell'alcol, per vere e proprie patologie psichiatriche derivate dal poliabuso. Svolgendo il mio servizio di accoglienza e accompagnamento in comunità nei riguardi di chi è ultimo, azzoppato da una vita sopravissuta, mi rendo conto di quanto l'informazione sia soggetta a forme idiosincratiche, come a voler mantenere inalterati i meccanismi perversi che producono personalità disgregate o frantumate. Chi come me passa molto tempo in una comunità a lavorare e ascoltare non ha difficoltà a imbattersi nell'inganno per cui: i giovani sono il problema, e così dicendo gli adulti si autoassolvono dall'aver conciato a questa maniera non soltanto gli adolescenti, ma la società e le regole che ne tutelano i diritti e i doveri... PER LEGGERE TUTTO IL TESTO, CLICCARE SUL TITOLO.



E’ un teatrino delle maschere e dei ruoli, dapprima usurati e poi usurpati, delle invettive che fanno audience, dei nuovi comportamenti di vita che passano sopra ai giovanissimi, incapaci di affrontare le ordinarietà di cui la vita necessita, le banalità derivanti dal rispetto delle regole. Quando parliamo di droga, di violenza, di devianza, parliamo di adolescenza rapinata, mai di una normalità da sbandierare con fatalità impropria, non tanto per porre rimedio a un disagio divenuto sociale, piuttosto per giustificare l’uso e abuso di sostanze, gli atteggiamenti aggressivi che divengono violenti, creando allarme non di facciata. Bisognerebbe invitare la collettività a venire a trovarci in comunità, dove io svolgo il mio servizio, a partire dalla scuola, dalla famiglia, dalle istituzioni, ai conduttori di coscienze da formare. E’ un invito che non ha a che fare con l’ufficialità della cerimonia, della ricorrenza legata a momenti esponenziali di dolore per i tanti ragazzi feriti a causa delle regole defenestrate di autorevolezza. Si tratta di un invito per prendere atto di come le lacerazioni tutto intorno assomigliano alle riproposizioni dei mali a cui ci siamo incredibilmente abituati, vere e proprie diaspore, disturbi della personalità così gravi da non esser più capaci di sanare. Sarebbe un viaggio di poche ore ad ascoltare, a incontrare, a comprendere come mai in questo momento di atomizzazione di etiche e di morali, questo spazio educativo rappresenti lo spaccato sociale più autentico, residuo di un mondo adulto irresponsabilmente celato, che non riesce a frenare quelle brame di possesso e quelle fughe in avanti che rispediscono al mittente richieste di aiuto disperate e disperanti. Forse è davvero importante accettare un momento di incontro in comunità, dare voce alla possibilità di uno stile di vita equilibrato perché dignitoso, affinché possa diventare criterio da seguire per tentare di riconsegnare un’attenzione, un piacere, un interesse, e allontanare quei desideri dilanianti per non sentirsi uno zero, e la paura di ciò è tanta di questi tempi.

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