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L’indifferenza del sangue.
di Vincenzo Andraous  ( vincenzo.andraous@cdg.it )

24 luglio 2009

Chi ricorda più l'uomo rumeno ridotto al macero nella metropolitana a Napoli? Ogni giorno andava a prendere la metro in compagnia della moglie, d'improvviso s'è scatenato l'uragano, gli scooter rombavano, le pistole crepitavano, in pochi attimi per terra morente un uomo, in piedi fortunatamente illesa la moglie, a gridare disperata un aiuto che non c'è stato. Per sbaglio è stata colpita a morte una persona, poco importa se uno straniero, un uomo innocente, oppure una persona dal credito esaurito ai giorni a venire. Quanto accaduto ai tornelli di quella stazione non solo è atroce per una vita annientata, lo è anche per l'atteggiamento nei confronti di una tragedia che non può lasciare indifferente alcuno, in quegli spazi di comuni partenze, in quegli attimi di coscienze nientificate. In quel morto ammazzato, in quella sua compagna devastata dalla paura e dal dolore, in quel via vai di sconosciuti protesi a una fuga salva vita, c'è dell'altro, non si tratta solamente di un rinculo per lo spavento, c'è altro di più, c'è altro in meno. Di più nell'eccesso di abitudine alla fatalità, alla sonnolenta indifferenza, un diritto acquisito sul campo a far finta di nulla, a passare avanti, tanto è cosa di tutti i giorni, come ieri i rifiuti sparsi qua e là, la solitudine delle vittime... PER LEGGERE TUTTO IL TESTO, CLICCARE SUL TITOLO.



...a fare la differenza oggi, che è gia domani. In meno c’è la compassione, quella dimensione che non fagocita cinismo né menefreghismo, non permette di fare foto ricordo sul corpo martoriato altrui, né di imbrattare la fratellanza umana con il trucco cinematografico della società aperta multiculturale solidale, un falso reso credibile da quella finta partecipazione che fa guadagnare una pseudosopravvivenza, una cultura della solidarietà, dell’inclusione sociale, male recitata. A Milano, a Palermo, a Bolzano, sarebbe stata la stessa cosa, infatti a volte l’istinto a ripararsi, a proteggersi, a correr via, la fuga è la miglior difesa della vita, ma lì, in quel di più e in quel di meno, c’è un dispiego inaudito di socialità indifferente, di fraternità indifferente, di pietà indifferente. La violenza è nel piatto del cibo, nei calzini appena messi, nel biglietto del cinema da poco acquistato, nella scuola abbandonata, nella famiglia squassata per arrivare a sera. La violenza è in ogni curva infilata dritta per arrivare primi, in ogni sgabuzzino camuffato a nascondiglio, in ogni feudo di potere conquistato sulla strada, chi se ne frega se abbattendo a una fermata del proprio viaggio, un uomo in compagnia di tutto il suo mondo. Scompare persino la rabbia, non resiste alla gogna neppure l’indignazione, rimangono a fare rumore solo passi affrettati verso una salvezza dall’altra parte della carreggiata, senza volgere lo sguardo, proprio come fanno gli assassini, quelli che hanno addomesticato le passioni, le emozioni di una intera città, i sogni e desideri di una gioventù monca, recisa, troppo spesso buttata via a metà del percorso. Non rimangono da usare neanche tante parole, per tentare di uscire sani di mente e di cuore da una simile circostanza, forse non è più sufficiente parlare di educazione, etica, morale, ora occorre scandire un tempo di trasformazione culturale, di fiducia in quegli uomini e in quelle donne che possono ricondurre la società al posto che le compete, quello del rispetto della vita.

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