Tutti i critici letterari concordano nel ritenere la " Divina Commedia " come la più alta composizione lirico-poetica mai prodotta dalla genialità umana.
Ma per capire la poesia dantesca si deve, non solo interpretarla alla luce del tempo in cui fu prodotta, ma anche sceverarla nei suoi contenuti storici, filosofici, etici e spirituali.
Il tèma dell’ aldilà è rivisitato, dal Poeta, in una dimensione umana che penetra sul piano dell’eternità, avvalendosi, quasi sempre, di un lirismo vivificato dal dialogo che meglio fa risaltare le dinamiche psicologiche dei numerosi personaggi disseminati nelle tre Cantiche; e ciò, esprime la valutazione morale che Dante attribuisce alle vicende umane.
La profonda religiosità che pervade l’animo dell ‘ Alighieri lo spinge ad ergersi non solo come giudice dei peccati e dei vizi dell’uomo, ma, soprattutto, come giudice di se stesso.
Il Poeta, quasi come un novello Socrate, avverte. in sé, lo spirito della Divinità che lo incita ad ammonire i suoi contemporanei ,ed i posteri, sull’inesorabilità della Giustizia Divina; ma, altresì, a rendersi mallevadore della Misericordia di Dio, affinchè l’umanità possa riacquistare una novella età di giustizia, rasserenata dalla " pacem in terris ",restituita e santificata dal sacrificio della Croce.
Questi, i propositi di Dante: e per dare solennità al suo messaggio, risveglia, dal silenzio dei secoli il più grande poeta latino; quel Virgilio, il cui stile armonioso, ma pur solenne, ha ispirato tutta la successiva letteratura latina, a partire dalla fine del 1° secolo A. C. , e che rappresenta, nella Commedia, l’espressione più significativa della Saggezza e della Ragione, oltre che riproporre lo studio del più grande dei filosofi greci: Aristotele. Il " maestro di color che sanno " ( v. canto XI XI dell’ inferno , vv. 79 - 84 ).
Ma Dante sceglie Virgilio , come sua guida prestigiosa , anche perché, nel Medioevo, il poeta latino fu considerato anche come spirito profetico, (paragonabile al nostro Gioacchino da Fiore ) per aver preannunciato nella sua prima opera poetica, " Le Bucoliche ", la nascita di un bimbo prodigioso, un Messia, capace di determinare una palingenesi dell’umanità.
Il termine " Bucoliche" deriva dal greco antico " Bukolos ", che attiene,cioè,al mestiere del pastore, la cui vita si svolge tra i colori della campagna o fra le forre dei monti,nmentre si accompagna con lo zufolo di una canna, dal quale trae tenui suoni che lo cullano nell’impercettibile trascorrere del tempo; da ciò, una forma poetica alla quale - fin dal III secolo A. C. - il poeta greco Teocrito aveva dato inizio e stile.
Virgilio avvertì il prorompente romanticismo di quella poesia e raccolse nelle dieci " ecloghe " (componimenti scelti ) che compongono le sue Bucoliche il suo inno alla natura; fra questi componimenti spicca la IV ecloga, dedicata all’imminente nascita del figlio di un suo caro amico: Asinio Pollione.
Ecco perché, nel Medioevo, questa ecloga divenne profetica della nascita del Cristo. Se in Virgilio l’ansia di una " renovatio mundi ", che ponesse fine alle violenze delle guerre, si affidava ad un evento soprannaturale che riportasse la pace fra gli uomini, in Dante, la medesima ansia pervade tutto il suo poema, per richiamare le genti ad un ordinamento mondiale risplendente di virtù e giustizia.Ma virtù e giustizia sono, per Dante, e non solo per lui, esigenze primarie della spiritualità dell’ uomo, ed egli le pone come le finalità più alte della Ragione. Non a caso, dianzi, si è accennato ad Aristotele, il cui pensiero è considerato, universalmente, come la più alta espressione della filosofia razionale greca; e Dante rimarca questa valutazione nei versi del già citato canto XI dell’Inferno: " Non ti rimembra di quelle parole / con le quai la tua Etica pertratta / le tre disposizioni che il ciel non vole ....", con questi versi , il Poeta vuole significare la disposizione delle pene infernali, la cui comprensione è chiaramente intuita dalla Ragione, senza bisogno di ricorrere alla Rivelazione .
A tal proposito, il richiamo aristotelico si incentra nella famosa opera del filosofo greco, intitolata "Etica Nicomachea", nella quale sono indicati i valori morali ai quali l’uomo deve uniformare la propria condotta. E è proprio Aristotele, per primo, il termine etica, il cui significato originario è quello, appunto, di "comportamento"; e ciò, per indicare le scelte che la società u,mana deve darsi per una convivenza pacifica.
Ne discende che, in ogni tempo, le codificazioni legislative si sono improntate a canoni etici per meglio guidare le disposizioni interiori dell’uomo; non a caso, la precettistica etica emerge, drammaticamente, allorché il mondo dei valori entra in crisi per una diversa valutazione di ciò che è bene e di ciò che è male ( i recenti tragici avvenimenti newyorkesi ne sono una tremenda dimostrazione ).
In definitiva, l’eticità può essere considerata una necessaria codificazione del comportamento che l’umanità si è data, spinta dal bisogno di tutelare la propria sopravvivenza e rendendola cogente attraverso il carattere della religiosità.
In Dante, questo aspetto viene esaltato come ammonimento, a riprova della tragedia che incombe sul genere umano, una volta che dovessero cessare tutti quei freni morali posti a garanzia del "continuum" della vita.
Ma in Dante non c’è solo un referente ossequio al filosofo di Stagira ( non si può dimenticare che Aristotele, nella trattazione della sua etica, era già testimone impotente del disfacimento della "polis", allorché l’invasione macedone poneva fine alla libertà della Grecia, delineando un nuovo assetto politico: l’Impero), c’è pure la necessità di risvegliare il pensiero politico e religioso dalla "atarassia" ( imperturbabilità dell’animo rispetto agli accadimenti di qualunque natura essi siano ) tipica dei filosofi stoici ed epicurei, i quali, impediti, dalla sopraffazione macedone si rinchiusero nell’indagine della propria interiorità, ritenendola l’unica via di sopravvivenza e rifacendosi ad un vivere secondo natura, il cui svolgersi è legato ad un rigido meccanicismo contro il quale è inutile ogni lotta; per cui all’uomo non rimane che sottomettersi "asceticamente ai doveri", come osserva il filosofo Giovanni Vattimo.
Di fronte a questo vittimismo Dante ritrova l’orgoglio della Fede e la fiducia nella Provvidenza; ma c’è soprattutto l’omaggio al diritto romano proprio per scuotere le coscienze da quell’ascetismo virtuoso di cui sopra ed in ossequio al principio del "libero arbitrio" inteso come volontaria obbedienza ai precetti etico-religiosi, laddove questa obbedienza costituisce la forma più alta di libertà.
Sempre nel canto XI dell’Inferno, Dante opera una classificazione delle pene infernali, direttamente mutuata dal diritto romano, e, in special modo, dal libro I, capitolo XIII, del "De officiis", del grande oratore latino Cicerone, che delinea chiaramente il concetto di dolo: "... Cum autem duobus modis, id est vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur ; utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore" il concetto del passo ciceroniano lo sipuò leggere ai versi 22-27 del citato canto XI; la traduzione logica del suddetto passo latino così potrebbe intendersi: " allorché si compie un’offesa, questa può attuarsi in due modi, cioè con la violenza o con l’inganno; quest’ultimo è tipico della furbizia volpina, l’altra è tipica della prepotenza leonina; ambedue sono estremamente all’uomo, ma la frode è maggiormente esecrabile".
Ecco perché Dante si convince della missione terrena dell’impero romano senza il quale il cristianesimo non avrebbe avuto possibilità di espandersi.
Se le legioni di Roma si irradiarono per oltre 400 anni sino agli estermi confini delle terre conosciute di quel tempo, il cristianesimo percorse a ritroso le grandi strade consolari per innalzare il proprio tempio nella Città Eterna.
Lo aveva capito San Paolo il più grande degli apostoli, quanto ad intuizione amministrativa ed organizzativa della nascente Chiesa.
Nel disfacimento politico del Medioevo, Dante auspica il rinnovamento del genere umano sotto l’egida dell’Impero e della Chiesa. Se si tengono in conto le sopra esposte considerazioni, si può convenire che in Dante l’opera di riappacificazione dei Popoli non poteva che avvenire attraverso la ragione del diritto, figlio, quest’ultimo, di quell’etica aristotelica nella quale furono individuate le ragioni esistenziali di ogni individuo, il quale, a sua volta, si ritrova tutelato se appartiene alla comunità, nella quale può costruire l’armonia di una città terrena, che, a sua volta prefigura la "Civitas Dei", approdo salvifico definitivo dell’esistenza umana meravigliosamente sintetizzato da Sant’Agostino nel "Intellego ut credam, et credo ut intellegam". Quest’ultima sintesi agostiniana prospetta il grande problema della conoscenza: "credere per conoscere o conoscere per credere?" lo scienziato ha sempre penetrato il mistero dell’universo fidandosi solo della propria ragione, fino a formulare l’ipotesi dell’ancestrale big- bang oltre che convincersi dell’ineluttabilità dell’esplosione finale in cui tutto si ridurrà "ad un altissima quiete e ad un profondissimo silenzio" ( Leopardi "Cantico del gallo silvestre" - " l’infinito").
Per pervenire a questa formulazione scientifica sono occorsi all’uomo millenni di studii.
I testi sacri, hanno già anticipato il tutto: dal primigenio biblico "fiat lux" all’annuncio apocalittico di San Giovanni.
(presentazione): qual’è il confine tra Fede e Ragione? C’è un confine? Si può essere uomini di scienza pur credendo nei misteri della Fede? L’autore, cultore dei Testi Classici, propone una visione che potrebbe trovare l’accordo tra due poli così opposti, e così importanti.