Indulto o inganno?
di Vincenzo Andraous
( vincenzo.andraous@cdg.it )
22 agosto 2006 |
| Quando si parla di carcere, si rischia di incorrere in esternazioni ideologiche, per non percorrere la strada faticosa a nome Giustizia e Umanità. Per partorire davvero riforme, invece occorrono costruzioni mentali forse difficili, non basta esprimere giudizi. Tutti sappiamo che è più facile non guardare a quel che succede nei meandri di un penitenziario. Altrettanto sappiamo che è ancora meglio non interessarsi a quel che non succede in una prigione. In fin dei conti è più consono non accollarsi troppi mal di testa per "persone" che hanno sbagliato, e pagano giustamente pegno. Tranne poi scandalizzarsi e farne un dramma di coscienza, quando molte di queste persone, una volta ritornate in libertà, al termine della loro pena, ricommettono gli identici reati , creando allarme sociale e insicurezza. Allora si auspica, inasprimento delle pene, carcere duro..... il capo reclino negli strati più profondi, con l'unico risultato di nascondere la verità, quella che fa male e ci indica come corresponsabili di un'assenza che perpetua vittime e carnefici. L'impressione che si ricava dal dibattito attuale sull'indulto, è di una somma di parole che non favorisce speranza, eppure per superare lo scompenso, la diastasi tra punizione e recupero, occorre ripristinare un clima di collaborazione e di partecipazione attiva. Forse è il caso di prendere in considerazione il fatto che il reato, il delitto, necessitano anche di un risanamento oltre che di punizione... PER CONTINUARE LA LETTURA, CLICCARE SUL TITOLO. | |
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Se rapportiamo questo ragionamento alla funzione del carcere, erroneamente ridotto a fungere da mero luogo di contenimento, e alla luce degli effetti prodotti: recidiva, desocializzazione, deresponsabilizzazione, dobbiamo per forza fare affidamento sull’idea di un carcere che serva davvero a qualcosa, quanto meno a migliorare le persone costrette a trascorrervi parte della loro vita. Una società dimentica il diritto stesso, quando lascia il detenuto SOLO a riconoscere le proprie colpe, e tradisce quel diritto quando lo lascia SOLO nel suo impegno a superarle e rinnovarsi. Eppure è proprio questo rinnovamento, questo impegno a superare il passato, questa assunzione di responsabilità soggettiva, che impone al detenuto, ma anche alla collettività un nuovo modo di "vivere il carcere". In questa terra di nessuno, quale è il carcere, c’è davvero bisogno di un incoraggiamento pedagogico, verso condotte socialmente condivisibili, ma forse c’è soprattutto urgenza che vengano attenuati alcuni meccanismi dissocianti di una peculiare condizione carceraria, i quali ostacolano la prospettiva di un valido avvenire e di una nuova esistenza sociale. Più volte si è sostenuto che questo indulto, se non avesse compreso anche i reati finanziari, non sarebbe stato votato, quindi è la risultanza di una manipolazione in favore di qualche potente di turno, per cui si è nuovamente usato il detenuto. Tutto può essere, ma in questa nuova opportunità per l’uomo della pena, c’è il bisogno e la necessità di una intuizione educativa, responsabilizzante, fagocitante un cambio di mentalità all’interno di una prigione, non più resa monca dal sovraffollamento, dalla carenza di personale e di fondi.
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